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Eutanasia, Corte Costituzionale, Parlamento

di Francesco Domenico Capizzi*

Capita di trovarsi davanti a persone con estrema sofferenza fisica, raramente psico-fisica, senza alcuna speranza verso il futuro e il recupero di consapevolezza di sé stessi, e chiedersi che cosa poter fare e augurare: impossibile restare estranei, magari disquisendo su diritti e doveri, principi religiosi o agnostici. Piuttosto diventa naturale sperare nella morte come atto risolutivo dettato da sentimenti di carità e compassione umana nell’immanente debolezza e povertà collettiva di fronte al mistero della vita e del suo rovescio. 

Resta difficile, comunque, in ogni situazione data e per chiunque, distinguere il limite estremamente sottile che separa l’eutanasia passiva (non-accanimento terapeutico ed effetti nocivi della sedazione profonda) dall’eutanasia attiva (somministrazione di un farmaco letale). Di fronte a malati ridotti a gusci pietrificati, che percorrono sentieri di sofferenza in tempi e spazi desolati e immobili, soltanto la deontologia medica ippocratica può travalicare definizioni, normative, atti istituzionali, fondamentalismi giuridici e religiosi e tattiche politiche se la morte provocata, nelle intenzioni, assumesse la prospettiva di un’azione dettata da carità e compassione. 

  Libertà di coscienza e principio di autodeterminazione sono alla base di ogni scelta attuata di fronte alla irreversibilità della condizione clinica constatata: l’eutanasia attiva, quale intervento intenzionale e programmato, si prefigge lo scopo di interrompere la vita su richiesta della persona o di un suo fiduciario indicato formalmente in piena coscienza; l’eutanasia passiva, già contemplata dalla Corte di Cassazione, che ne ha definito i limiti e previsto le circostanzecasi in cui è lecito sospendere un trattamento terapeutico e di supporto vitale, cioè “quando la condizione di stato vegetativo sia, in base ad un rigoroso apprezzamento clinico, irreversibile e non vi sia alcun fondamento, secondo gli standard scientifici riconosciuti, che lasci supporre che la persona abbia la benché minima possibilità di un qualche sia pur flebile recupero della coscienza e di ritorno alla percezione del mondo esterno; sempre che la richiesta sia realmente espressiva, sulla base di elementi di prova chiari, concordanti e convincenti, della reale volontà del malato tratta dalla sua personalità, dal suo stile di vita e dai suoi convincimenti, prima di cadere in uno stato di incoscienza” (Sentenza n. 21748, 19/10/2007). La Corte di fatto ha così chiarito e recepito quanto stabilito dalla Convenzione europea su Diritti umani e Biomedicina di Oviedo (4 aprile 1997): “La sospensione dei trattamenti che si configurino in accanimento terapeutico è possibile se esiste il consenso scritto del malato o dei familiari qualora egli non si trovi nelle condizioni di intendere e di volere”. 

La questione posta nel recente quesito referendario è di tutt’altra natura: la sua realizzazione, sul piano giuridico, avrebbe evitato le accuse di omicidio intenzionale (art. 575 e 579 C. P.) e di istigazione ed aiuto al suicidio (art. 580 C.P.) nonostante il movente poggi su sentimenti di compassione e la volontà di chi agisce si collochi nella direzione opposta rispetto all’omicidio volontario. 

La nostra Corte costituzionale, lo scorso 15 febbraio, ha dichiarato inammissibile il quesito referendario che chiedeva di depenalizzare “l’omicidio del consenziente” perché “a seguito dell’abrogazione, ancorché parziale, della norma sull’omicidio del consenziente, cui il quesito mira, non sarebbe preservata la tutela minima costituzionalmente necessaria della vita umana, in generale, e con particolare riferimento alle persone deboli e vulnerabili”. 

“Questa è una brutta notizia per noi e per coloro che subiscono e dovranno subire ancora più a lungo. Una brutta notizia per la democrazia” hanno dichiarato i promotori del referendum sorto per l’assenza di una legge che  il Parlamento non ha varato nonostante la Convezione di Ovedo, recepita dall’Italia nel 1997, e l’invito esplicito della Consulta del 2017

Terapie farmacologiche, nutrizione e respirazione artificiali, supporti cardiovascolari e renali ed epatici, tecnologie sofisticate incidono profondamente, fino all’inverosimile, sul decorso naturale di condizioni cliniche, per il malato insopportabili, quanto afinalistiche, che nel passato conducevano al naturale fine vita. 

Il Parlamento accetti con premura l’invito a legiferare in scienza e coscienza. 

  • Già docente di Chirurgia generale nell’Università di Bologna e direttore delle Chirurgie generali degli Ospedali Bellaria e Maggiore di Bologna
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