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Il rischio di vivere connessi

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Mi connetto, dunque sono. Il rischio di vivere connessi

di Salvino Leone*

Connessioni

Due episodi avvenuti negli ultimi giorni mi hanno colpito particolarmente. Il primo riguarda una ripresa video che mi era stata fatta nel corso di un briefing per metterla su Instagram. Ovviamente nessun problema da parte mia. Ma quando l’indomani sono andato a cercarla, non l’ho trovata. Mi hanno spiegato che era normale, perché questa tipologia di storia dura solo 24 ore, eph’emera come si direbbe in greco, in un’espressione che ha dato vita al nostro aggettivo «effimero» e a un ordine di insetti (Ephemeropterai) la cui vita dura, appunto, un solo giorno.

Il secondo episodio riguarda uno scenario ben noto a tutti i docenti scolastici che leggono queste righe. Mi avevano chiamato «da esterno» a parlare del suicidio assistito. Era un gruppo di ragazzi che svolgevano liberamente attività extrascolastiche, per cui non obbligati a stare in classe ad ascoltare un insegnante. Per circa un’ora sono stati tutti connessi al cellulare, e quei pochi in qualche modo interessati hanno posto domande banali, ripetitive di quanto ascoltato nei talk show televisivi.

Tutto questo, ovviamente, fa riflettere.

In primo luogo sul consumismo della notizia. Mi è stato spigato, peraltro, che se non si rinnova il messaggio su alcuni social si perdono i follower (mi chiedo poi che male ci sia in questo, ma sarebbe una considerazione troppo giurassica). La notizia o il fatto va comunicato brevemente e in modo efficace, ma poi dimenticato senza i necessari tempi per la sua elaborazione o, come dicevano gli scolastici, per la sua ruminatio. Tutto questo rende estremamente difficile l’invito alla riflessione e le stesse modalità con cui questa si dovrebbe realizzare. 

D’altra parte la concentrazione che un ragazzo dovrebbe avere nell’ascolto, distolta com’è da questo continuo rimanere connessi, non ha più motivo di esistere. L’attività «cogitativa» è stata sostituita da quella «connettiva»: me connecto, ergo sum, potremmo dire in un improbabile maccheronismo.

Indubbiamente sul piano comunicativo abbiamo attraversato diverse fasi: quella delle antiche civiltà dell’ascolto (oggi impensabili, ma che ci hanno trasmesso i poemi omerici o le sacre Scritture). Poi quelle dell’immagine, che hanno valorizzato un ulteriore canale sensoriale, quello visivo, lasciando che questo imprimesse nuovi solchi nel nostro vinile cerebrale. Ma l’immagine era in qualche modo permanente; si poteva tornare rivederla come facciamo oggi con i vecchi film in bianco e nero di immutato interesse e bellezza.

È subentrata adesso una nuova cultura, mediatica, in cui suono e immagine arrivano, sganciano la bomba (tanto per usare una metafora di triste attualità) e vanno via lasciando il fruitore col bisogno di un nuovo approccio, di un nuovo consumo, una vera e propria dipendenza mediatica. Certamente si tratta di qualcosa di più nobile ed elegante rispetto alle altre consolidate dipendenza, ma proprio per questo non meno pericoloso. 

Lo so, sono considerazioni fatte e lette molte altre volte, ma credo sia importante non abbassare la guardia, soprattutto quando ci troviamo a confrontarci con questioni di grande rilievo etico e bioetico in particolare, che ci coinvolgono e ci riguardano direttamente. Non si tratta solo di avere un’opinione (che poi non è neanche nostra ma è quella della massa che, come sappiamo, alla fine sceglie sempre Barabba), ma di far che questa possa essere sempre argomentata, razionalizzata, dibattuta se è il caso. 

La povertà ideativa non si combatte con una protesi mediatica, ritenendo arcaico chi la critica. Se il mezzo è messaggio, come ci ha insegnato McLuhan, viene da chiedersi quale possa essere il messaggio veicolato da un cellulare di ultima generazione o da una delle tante risorse social che lo affollano. Facebook, Instagram, Twitter, TikTok sapranno essere nuovi strumenti cogitativi? Saranno ausilio per la mente e non semplici esercizi per i pollici?

*teologo, da Il post della rivista Il Regno

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